Un progetto su i "vuoti a perdere"
Piccolo saggio sulla gracilità
mentale e gli stati demenziali
Massimo Cacciari e forse pure Papa Francesco da lungo tempo
ci invitano a metter fine al moderatismo, vecchio retaggio tutto democristiano,
poco compatibile coi tempi di Coronavirus e con un necessario e radicale cambio
di politiche.
E perché non in una prospettiva cristiana e meridionalista?
Perché mai il Sud non dovrebbe pensare
a un grande progetto di recupero (e rilancio) dello spopolamento e dei paesi
abbandonati? Ossia il 42,1 % del totale dei comuni del nostro Paese (Piemonte
con 539 comuni disagiati, i 370 della Campania, i 354 della Calabria e i 301
della Sicilia).
Perché non mettere intorno a un tavolo – con Beppe Provenzano
- Gianfranco Viesti, Tomaso Montanari, Vito Teti, Tonino Perna e magari pure
Tito Boeri e Fabrizio Barca, chiedendo loro di verificarne la fattibilità e di
procedere a un timing di programmazione? Insomma una task-force in più, e
questa volta molto ma molto sensata. che prenda il toro per le corna. Non si tratta di un semplice nuovo
equilibrio tra città e aree interne. E’ questione complessa, prevalentemente
urbanistica e demografica, che merita uno studio approfondito.
Recuperare i
vuoti a perdere
1600 piccoli comuni (tra Piemonte, Campania, Calabria e Sicilia), per un bacino di 160.000 ospiti tra i profughi richiedenti asilo?
Scrive
Vito Teti: “occorre distinguere tra: a. paesi abbandonati da lungo tempo,
totalmente irrecuperabili, anche da un punto di vista urbanistico; b. paesi
abbandonati ancora integri (almeno in parte) dove potrebbero tornare o arrivare
degli abitanti; c. paesi in spopolamento e con pochi abitanti. d. paesi che
soffrono una crisi demografica e di spopolamento dove però restano e resistono
abitanti in un numero significativo”. Per i paesi a. si possono ipotizzare:
percorsi identitari, storici, di memoria e anche turistici di cui si facciano
carico i comuni entro cui le rovine insistono. D’altra parte nei paesi
abbandonati, tra le rovine, si assiste a pellegrinaggi di ritorno, a feste e
riti nei luoghi degli antenati e dei padri e delle memorie, a viaggi di memoria
che segnalano anche insofferenza per i “non luoghi” in cui si abita e desiderio
di “costruire”, comunque, nuove forme dell’abitare.
Per i paesi b. si possono tentare recuperi o forme di
ripopolamento, con la consapevolezza che non è possibile ripristinare il
passato, uscendo da ogni retorica di improbabili e improponibili ritorni a un
buon tempo antico, nell’impossibilità di cancellare processi erosivi e
sconvolgimenti irreversibili.
Per il caso c., a dispetto di ogni calcolo economicistico e
di logiche produttivistiche, si devono riaffermare i diritti e i doveri di ogni
abitante, anche ultimo, che è il custode di memorie.
Per il caso d. vanno avviate nuove scelte e nuove pratiche
economiche, sociali, produttive in grado di arrestare il declino e di mostrare
che “piccolo” è abitabile e vivibile. Si possono sperimentare pratiche di
inclusione e di accoglienza”. E ancora saremmo sulla soglia del progetto,
quando i migranti bussano alle nostre coste: occorre accelerare, prendere una
decisione e sbrigarsi.
Come non averci pensato prima! Ripensare ai migranti in una
prospettiva civile, umanitaria ma non esente da una ratio economica prim'ancora
che etica, meridionalista e "paesologica", oltre che demografica, di
accoglienza, tutela e valorizzazione dei "vuoti a perdere". Non sono
forse questi i nostri “borghi in movimento”, abbandonati soprattutto se in
collina, di cui cianciava la nostra Sottosegretaria ai Beni culturali
(calabrese come noi)?
Dicono i parlamentari Brescia e Baldino - di recente improvvisatisi
statisti - che "la revisione dei decreti sicurezza non dovrà essere
un’operazione di cancellazione del passato, ma dovrà essere utile per costruire
un sistema migliore per il futuro, per governare un fenomeno che rimane globale
e su cui serve una forte risposta europea”. E allora quale migliore occasione
di un pezzetto di Recovery Fund?
Fino a quando dovremo rinviare qualsiasi cambio di passo,
rispetto all’emulazione trash dell’agenda salviniana, qualsiasi decisione
importante (fiducia nell'Europa e nella finanza europea, ruolo dell'accoglienza
e dell'ospitalità per tunisini, siriani, libici e gli altri profughi che
necessariamente scappano dalla guerra o comunque da altre situazioni
insostenibili). Per quanto tempo ancora Di Maio si sentirà libero di emulare la
Giorgia donna-madre-italiana-etc. che tuonava per l’affondamento delle navi Ong
oggi nella ridicola variante del gommone tunisino? Per quanto tempo dovremo
foraggiare i trafficanti e carcerieri libici invece di incoraggiare lo sviluppo
dei tanti a noi vicini, prostrati dalla carestia, dalle guerre, dalla sete e dal virus? Sarà che
istintivamente ci viene un ribaltamento di paradigma, da minus a plus, sul
calco dei post-it: la colla "debole", la colla che non incollava o
che "incollava poco", divenuta in poco tempo un successo commerciale
della 3M. Basterebbe solo questo capovolgimento di paradigma, per passare dai
fantasmi e dalle miopie sovraniste e fascio-leghiste a una politica di
accoglienza "conveniente per tutti", soprattutto per gli italiani. Da quanto tempo lo sta gridando Tito Boeri, ex presidente dell'INPS?
Per l'Italia e per l'Europa. Invece di pietire il
co-interessamento europeo (“da soli non ci si riesce”), occorre decidersi a
fare qualcosa per l’Europa oltre che con l’Europa. Con l’effetto accessorio di
mettere a tacere pregiudizi e ritrosie dei cosiddetti Paesi frugali (quelli che
campano sulla nostra evasione/elusione fiscale) e del gruppo di Visegràd.
Perché mai noi non dovremmo pensare, in una prospettiva meridionalista
che guarda a un Mediterraneo in subbuglio, a un grande progetto di recupero (e
rilancio) dello spopolamento e dei paesi abbandonati, ossia circa 1600 piccoli
comuni (tra Piemonte, Campania, Calabria e Sicilia), per un bacino di 160.000
ospiti tra i profughi richiedenti asilo? Perché lasciarli insistere solo su
Lampedusa e sugli attracchi più facilmente a portata di barca della Sicilia o
della costa calabra? Perché non programmarne l’ingresso come forza-lavoro, come
operai, braccianti, tecnici, badanti, artigiani? Comunque persone in
difficoltà, richieste si spera transitoriamente di non bighellonare ma di dare
un contributo al paese ospitante. Dare senso a un salvataggio in mare,
rilanciando l’etica che muove oggi Bansky e pure Gherardo Colombo e Friends al fine di non lasciarli
affogare. Insomma, istituzionalizzando l’idea di corridoio umanitario e di
integrazione come obiettivo non accessorio o che rientra dalla finestra come un
dono inaspettato. Fosse solo per il tempo di un soggiorno in un bed and breakfast
e non di una deportazione fine-pena-mai. Come per i post-it, forti della nostra
storia di emigrazioni, invito a scollarsi da un momento di difficoltà
transitoria, per poi decidere assieme il passaggio da affido a adozione. In
ogni caso, lo dicevamo all’inizio, non
si tratta di un’idea ribelle. Lo è diventata solo perché abbiamo
progressivamente dimenticato le battaglie sull’acqua pubblica, sulle energie
alternative, sulla civiltà; perché abbiamo coniato nuovi orribili sintagmi
quali “taxi del mare” o il “partito di Bibbiano”, dimenticando i beni pubblici
di Rodotà e la lezione misericordiosa di Zanotelli e dei frati comboniani, di
Gino Strada e pure quella di don Andrea Gallo.
Caro Di Maio, hai voglia a chiedere scusa.
(Il titolo rinvia a uno studio di E. de Greff sulle
ipofrenie, ripreso da Eugène Minkowski in “Il tempo vissuto”)
Commenti
Posta un commento